martedì 28 gennaio 2014

Ecco perche’ stando nell’Euro, l’impoverimento e’ inevitabile.

Abbiamo parlato tantissime volte della CRISI dell’EURO. C’e’ una correlazione incredibile tra l’andamento di tutte le variabili macroeconomiche, a partire dalla Produzione Industriale, e l’andamento del CLUP (Costo del Lavoro per Unita’ di Prodotto).

In estrema sintesi, coi cambi fissi, vince chi svaluta il COSTO DEL LAVORO.
Vediamo l’andamento di Germania, Italia e Spagna.
gpg01 - Copy (52)
In Germania vi fu un imponente svalutazione del CLUP, in particolare tra il 2004 ed il 2008. E’ in quegli anni che la Germania e’ passata dall’essere il “GRANDE MALATO D’EUROPA” all’essere locomotiva. La Compressione del CLUP avvenne attraverso le riforme Hartz IV, creando un enorme esercito di sottopagati (circa 7 milioni). L’operazione costo’ 3-4 anni di sforamento del Deficit sul parametro del 3%, amplio’ i margini aziendali, e le aziende tedesche simultaneamente ridussero gli investimenti: il tutto si tradusse in una compressione della domanda interna, ed un ampliamento epocale dell’attivo della Bilancia dei Pagamenti, essenzialmente a spese degli altri paesi europei. In pratica fecero una sorta di “Svalutazione Competitiva“.
La Crisi dell’Eurozona fu indotta da una crisi esterna, ma fu fortemente alimentata dalla politica Tedesca degli anni precedenti: l’abbiamo ampiamente spiegato e non ci torneremo su.

La Spagna tra il 2008 ed il 2013 ha reagito alla crisi, e l’ha fatto attuando una politica similare. In 5 anni ha dimezzato il differenziale di CLUP con la Germania. L’operazione e’ stata possibile grazie al fatto che la Spagna ha un Mercato del Lavoro abbastanza flessibile, ed aveva un Debito Pubblico non elevatissimo. In sintesi la Spagna ha espulso dal mercato del Lavoro 3,5 milioni di persone. Cio’ ha consentito di contenere il CLUP. Tale politica (in parte voluta, in parte causata dagli eventi) ha causato una forte compressione della Domanda interna, ed i Conti Pubblici si sono fortemente deteriorati (e lo sono tutt’ora). Qualche minimo segnale di ripresa dell’export lo si e’ intravisto solo di recente, ma la situazione resta drammatica su tutti i fronti dell’economia reale (la disoccupazione e’ al 26%), ma l’inflazione e’ stata imbrigliata, e la bilancia commerciale ha avuto netti miglioramenti.

Ma se, in un SISTEMA A CAMBI FISSI, la CHIAVE per una politica di ripresa e’ LA RIDUZIONE DEL CLUP, come e’ possibile ridurre il Costo del Lavoro per Unita’ di Prodotto?
Ovviamente in un sistema a cambi variabili, basta svalutare. Ma nell’Ipotesi di restare nell’Euro, serve ridurre il divario di CLUP con la Germania (il gap cumulato e’ del 22-23%). Come? Ci sono 3 modi:
A) RIDURRE IL NUMERO DI LAVORATORI sia nel sistema pubblico, che privato (per l’Italia, per colmare il Gap, significa ridurre di 5 milioni il numero di lavoratori, passando da 22,5 a 17,5 milioni)
B) RIDURRE I SALARI sia nel sistema pubblico, che privato (per l’Italia, per colmare il Gap, significa ridurre del 22-23% i salari)
C) RIDURRE DRASTICAMENTE IL CUNEO FISCALE (per l’Italia, per colmare il Gap, significa ridurre gli oneri sulle Imprese per 150-170 miliardi; in sintesi concentrare le riduzioni fiscali e contributive su IRAP, tassazione Utili aziendali, oneri a carico delle Imprese, in primis contributivi)
E’ del tutto evidente, che ciascuna di queste 3 soluzioni e’ semplicemente IMPRATICABILE, per una serie di ragioni; ne citiamo alcune:
- Tutte e 3 le soluzioni implicherebbero (esattamente come accaduto in Germania nei primi anni 2000, ed in Spagna nel 2008-13) un deterioramento dei Conti Pubblici, cosa che una nazione con Debito al 134% non puo’ fare.
- Crollerebbe la Domanda Interna
- L’Economia Reale sprofonderebbe per qualche anno
- Dopo 15 anni di declino economico, una soluzione tra le 3 sopra indicate, che troverebbe effetto dopo 3-5 anni di cura, sarebbe insostenibile politicamente
L’Italia, negli ultimi anni (specie dal 2012) ha ridotto l’occupazione, ed in parte ha contenuto i salari, ma cio’ non ha comunque permesso neanche di iniziare a colmare il GAP competitivo con la Germania.

Avendo l’Italia vincoli di Debito Pubblico, se volesse solamente dimezzare il differenziale di CLUP cumulato con la Germania, dovrebbe fare una MANOVRA in 3-5 anni, con un MIX delle 3 azioni di cui sopra; in sintesi riducendo gli occupati (diciamo di 1 milione di unita’), i salari reali (diciamo di un 3-5%) e con un’azione sul Cuneo Fiscale (per la sola componente a vantaggio delle Imprese) di 30-50 miliardi, dimezzerebbe il differenziale di CLUP. Cio’ implicherebbe una riduzione della Spesa Pubblica consistente, per finanziare sia la riduzione del Cuneo Fiscale, sia gli ammortizzatori per la crescente disoccupazione, nonche’ una RIFORMA DEL MERCATO DEL LAVORO molto consistente.
In sintesi, se l’Italia partisse con tale politica OGGI, nel 2017-18, inizierebbe a vedere degli effetti sulla propria competitivita’ e sulla sostenibilita’ della propria economia reale. Il problema e’ che nel frattempo la disoccupazione sarebbe esplosa ulteriormente, i conti pubblici continuerebbero a deteriorarsi a ritmi consistenti, la Domanda interna e la Ricchezza Nazionale avrebbero un’ulteriore netta flessione.
E’ bene che chi sostiene l’EURO dica queste cose. Quanto sopra s’e’ gia’ visto bene in GRECIA e da noi s’e’ visto solo l’antipasto.
La nostra permanenza dell’EURO dipende da queste misure e non da altre, visto che la Germania continua e continuera’ con una politica di contenimento della propria domanda interna, del proprio Costo del Lavoro e senza nessuna mutualizzazione (Eurobond, Trasferimenti, etc).
A Parte il fatto che nessuno in Italia ha la forza (e forse le idee chiare) per fare la politica sopra decritta, una politica del genere, fatta a valle di 15 anni di impoverimenti (di cui 5 anni di crisi nera) e’ sostanzialmente insostenibile, perlomeno nella misura sopra riportata.
Ecco perche’ l’Italia nei prossimi anni non riuscira’ a colmare il GAP di CLUP con la Germania, se non in minima parte, e cio’ significa inevitabilemente un ulteriore impoverimento del paese, con aggravamento della situazione e di tutti i parametri.
In caso di forte ripresa internazionale, ovviamente, il processo di cui sopra, sarebbe attenuato nella sua drammaticita’, ma comunque prima o poi i NODI VERRANNO AL PETTINE.

A questo punto e’ bene porsi una domanda: CHE FUTURO CI ATTENDE?
La premessa e’ che l’Italia perde da 17 anni ininterrottamente l’1% di PIL pro-capite all’anno sulla media Europea, e quasi il 2% di Produzione Industriale. Abbiamo visto che questa tendenza e’ destinata a proseguire nel medio termine, stante i cambi fissi.
Anche la persona piu’ sprovveduta al mondo, guardando il grafico della “Performance relativa della produzione industriale italiana rispetto a quella tedesca”, potrebbe dire quale sara’ la tendenza nel 2014, 2015, 2016…..
Produzioneind

Se il nostro futuro e’ l’Impoverimento e la deindustrializzazioneCOSA ACCADRA’?
In questo articolo sul Sole 24 Ore, la Bundesbank ci anticipa la soluzione:
Lo Bundesbank, poi, propone che se uno Stato è a rischio default sul proprio debito sovrano non dovrebbe ricorrere ai soldi dei contribuenti europei né guardare alla Bce, quanto piuttosto imporre una patrimoniale sulle ricchezze private dei propri cittadini. La banca centrale tedesca non fa esempi di Paesi, tuttavia, si può presumere che ci si volesse riferire a Grecia, Italia e Spagna, i cui cittadini, secondo i dati diffusi dalla Bce, dispongono di patrimoni privati pro capite superiori a quello dei tedeschi. Una patrimoniale una tantum «risponde al principio della responsabilità nazionale, secondo la quale i contribuenti sono responsabili degli obblighi assunti dai propri Governi prima di poter reclamare solidarietà da altri Paesi», si legge nel Bollettino. Nel contesto dell’attuale crisi finanziaria, si legge ancora, «balza agli occhi come la fiducia nel servizio del debito da parte di alcuni Paesi sia scesa anche se a questo debito pubblico corrispondono patrimonio pubblici e privati molto ampi» e che «in percentuale rispetto al pil sono più elevati di quelli nei Paesi creditori». La proposta, comunque, appare di difficile e rischiosa attuazione, scrive la Bundesbank, aggiungendo che, quindi, dovrebbe essere riservata a situazioni eccezionali, e cioé nel rischio concreto di un default sovrano. Importante sarebbe, soprattutto, chiarire ai mercati che si tratterebbe di un’iniziativa una tantum, destinata a non essere ripetuta nel tempo, perché altrimenti investimenti e capitale lascerebbero subito il Paese in questione.

Chiaro? Dopo averci “cotto” a puntino, sottratto fette di economia produttiva, suggerito politiche di austerity (il tutto col consenso delle nostre inette classi dirigenti), se i conti pubblici saltassero (cosa inevitabile in un costesto di impoverimento progressivo di lungo periodo), bisognerebbe garantire i “Creditori” e fare una bella “Patrimoniale”, che altro non e’ che uno spostamento di ricchezze accumulate dal settore privato Italiano al settore pubblico Italiano, e da questo ai Creditori esteri.
Che tradotto significa: “prima ti tolgo il lavoro, e poi ti tolgo la casa”.
Alzi la mano chi crede che realmente non andra’ cosi’, e se lo fa, ci spieghi il perche’.

mercoledì 30 ottobre 2013

Ci sono un italiano, un Inglese e un Tedesco

Ricordo perfettamente che durante la mia infanzia e giovinezza, diciamo negli anni 70 ed 80, andavano per la maggiore le barzellette dove c’era l’Italiano, il Tedesco, il Francese, etc.
Tutte queste barzellette erano similari: vedevano un confronto tra i vari attori, in cui gli stranieri manifestavano una certa tendenza efficiente di superiorita’ rispetto al “malandato Italiano”, ed alla fine invariabilmente e non senza una certa dose di fantasia l’Italiano riusciva sempre a cavarsela.
Queste barzellette, frutto della saggezza popolare, erano lo specchio dell’Italia dell’epoca: certamente meno “solida” rispetto ai partners d’oltralpe, ma che in un modo o nell’altro, generalmente con una buona dose di fantasia ed elasticita’ e furbizia italiaca, se la cavava nel confronto coi “robusti” e “rigidi” stranieri.
ci sono un italiano, un inglese e un tedesco che parlano dell’economia in generale. l’inglese e il tedesco stanno magiando delle gomme… allora l’inglese dice << noi inglesi mangiamo solo la frutta migliore, mentre gli scarti si riciclano e ci fanno la marmellata x gli italiani…>> il tedesco dice << noi tedeschi mangiamo la carne migliore, i pezzi migliori e abbiamo gli animali migliori, mentre gli scarti si riciclano e ci fanno i wriustell x gli italiani…>> infine l’italiano dice << noi italiani usiamo tantissimo i preservativi. voi li usate, si?>> e i due <<certo, xkè?>> e l’italiano risponde <<xkè una volta usati, non li buttiamo, ma li ricicliamo e ci facciamo le gomme da masticare e le vendiamo agli inglesi e ai tedeski>>
Fateci caso, ma da diversi anni queste barzellette non circolano piu’. Credo fermamente che non sia un caso.
In pratica rispetto a 20-30 anni fa, l’Italia continua certamente ad essere meno solida e forte dei paesi d’oltralpe (da questo punto di vista non e’ cambiato assolutamente niente). C’e’ pero’ una novita’abbiamo perso le doti tipicamente italiane di fantasia, elasticita’ e furbizia, e soprattutto abbiamo perso la fiducia, la speranza e la convinzione di cavarcela in un modo o nell’altro.

mercoledì 23 ottobre 2013

A che punto e’ la NOTTE italiana

Premessa:
In questi anni di crisi, oltre alle tasse e al disagio economico e sociale, c’è stata un’altra grande costante che ha tenuto compagnia alle nostre giornate, ai nostri momenti: la menzogna proferita in modo sistematico dai vari governi e dai politici di turno che, in maniera spudorata e vergognosa, hanno reiteratamente mentito e mistificato (e continuano a farlo) circa l’esatta situazione dell’economia e dei conti pubblici, in costante ed inesorabile deterioramento.
È’ chiaro che tutto ciò incorpora evidenti elementi di criminalità, proprio perché tende ad alimentare false aspettative nei confronti degli agenti economici più deboli: i disoccupati con le loro famiglie e le imprese, prime vittime sacrificali di questa crisi.
Proprio per questo, insieme ad altri siti amici, tra i più seguiti in Italia di economia, tutti liberi e senza padroni, abbiamo pensato di lanciare, coralmente, tutti insieme, questo post divulgativo al fine di far ben comprendere l’esatto stato dei conti pubblici e dell’economia.

LA MENZOGNA
 gpg1 (516) - Copy - Copy - Copy - Copy - Copy - Copy

I grafici  che seguono esplicano in maniera esaustiva i clamorosi  errori previsionali commessi dai vari governi che si sono alternati negli ultimi 3 anni di cirsi, su Deficit Pubblico, Debito pubblico e Pil Nominale.
 gpg1 (513) - Copy - Copy - Copy - Copy - Copy - Copy

 gpg1 (514) - Copy - Copy - Copy - Copy - Copy - Copy

 gpg1 (512) - Copy - Copy - Copy - Copy - Copy - Copy

A CHE PUNTO E’ LA NOTTE ITALIA
Come noto, appena qualche di settimane fa, il governo ha reso pubblica la Nota di Aggiornamento al DEF. Per chi non lo sapesse, il DEF è il documento di economia e finanza che  rappresenta il punto nodale nella programmazione della politica economica e di bilancio del paese. Il punto d’incontro tra politica nazionale e l’Unione Europea, che incorpora le variabili macroeconomiche e di bilancio che il governo stima si possano realizzare, stante una crescita presunta del PIL.
Leggendo il documento licenziato dal governo, la cosa che più lascia perplessi, è dover constatare la volgarità della menzogna esercitata dal governo, proprio su talune variabili che risultano manifestamente abbellite, taroccate, per nulla aderenti con la realtà dei fatti,  con l’esatta situazione dell’economia italiana e  dei conti pubblici. Questi ultimi, appositamente “massaggiati” per offrire un quadro della finanza pubblica migliore rispetto a quello che effettivamente è.
Cerchiamo di andare nel dettaglio.

LA MENZOGNA SUI CONTI PUBBLICI
La nota licenziata dal Governo, rispetto al DEF di primavera, con la fine dell’anno ormai alle porte, recepisce ciò che era ormai chiaro da mesi, più o meno a tutti i commentatori di buon senso. Ossia che il Pil, anche quest’anno, diminuirà dell’1.7%(?), posizionandosi a 1.557,3 miliardi di euro, quindi ben oltre l’1.3% previsto solo a maggio dal governo Monti.
Sul fronte della spesa pubblica, il governo, proprio con l’intento di esporre un deficit migliore rispetto a quello reale, da un lato ha aumentato di un miliardo di euro la spesa corrente (pensioni, stipendi, acquisti); mentre, dall’altro,  ha corretto al ribasso la stima della spesa in conto capitale portandola a 807,6 miliardi rispetto agli 810, 6 precedentemente previsti: quindi, 3 miliardi in meno di spese che aiuterebbero (secondo il governo) a far rientrare sotto il 3% lo sconfinamento  deficit/Pil.
Ma entrando nel dettaglio del DEF, si scopre che questo (apparente) miglioramento, è determinato da artifici contabili,  per cui si differiscono all’anno successivo (cioè al 2014) talune spese in conto capitale  originariamente previste nel 2013, nonostante la spesa per investimenti sia stata fortemente ridotta in questi ultimi anni  proprio per esigenze di bilancio, non considerando che questa determina  anche delle manifestazioni virtuose per il ciclo economico. E’ ovvio che, se cossi fosse, questa pratica andrà ad impattare sul fabbisogno del prossimo anno.
Ciò nonostante, analizzando le spese della amministrazioni pubbliche e proiettando al 31 dicembre il consuntivo realizzato nei primi sette mesi dell’anno -dove sono cresciute dell’1.8% rispetto allo stesso periodo del 2012-  si osserva che queste, a fine anno,  dovrebbero aggirarsi intorno ai 678.5 miliardi di euro: cioè 6 miliardi in più rispetto ai valori rettificati dal governo nella nota di aggiornamento.
Sul fronte delle entrate, a causa dell’aleatorietà dei pagamenti da parte degli agenti economici,  la questione è molto più difficile da interpretare. Anche se i dati disponibili delle entrate tributarie, per i primi 8 mesi dell’anno, registrano una diminuzione dello 0.3%  rispetto allo stesso periodo del 2012.
Le entrate contributive, invece, secondo quanto comunicato dalla Ragioneria Generale dello Stato, nei primi sette mesi dell’anno, si sono attestate a circa  124 miliardi di euro, in flessione dello 0.9% rispetto allo stesso periodo del 2012.
Proiettando a tutto il 2013  i dati sulle entrate tributarie e contributive realizzate nei  primi 9 mesi, dando per certa una copertura del taglio della seconda rata dell’IMU -in parte assorbito anche dal recente aumento IVA-  e, in via del tutto prudenziale, ipotizzando comunque un miglioramento  dell’andamento delle entrate, è verosimile ritenere,  a fine anno, un minor gettito che oscilli  tra +0,1 e +0,4% per le entrate del 2013 sul 2012, ad un valore tra 755 e 757 miliardi di Euro, contro 759 preventivati, con un ammanco tra 2,0 e 4,0 miliardi.
Quindi in estrema sintesi, alla luce di quanto sopra esposto, si potrebbe ritenere del tutto verosimile un deficit, a fine anno, oscillante tra il 3.4% e il 3.6%, cioè dai 4 ai 6 miliardi in più rispetto ai 48.7 miliardi stimati dal governo nella nota di aggiornamento, con un debito pubblico prossimo al 134% contro li stima del governo al 132,9%
In buona sostanza, è questo il quadro di finanza pubblica che, con ogni probabilità, ci attenderà da qui a fine anno, salvo ulteriori manovre correttive o giochi di prestigio per esporre un deficit inferiore al 3%. Ma in uno scenario come quello descritto, nel quale si balla proprio ai limiti, nonostante la manovra di contenimento di 1.6 miliardi di euro varata lo scorso 10 ottobre, molto dipenderà dalla crescita economica dell’ultima parte dell’anno e dalle entrate tributarie degli ultimi mesi, anche se, a parer di chi scrive, i margini di ottimismo sembrano piuttosto ridotti, se non addirittura inesistenti.

COME TAROCCARE LE PREVISIONI SULLA SPESA PER INTERESSI
Ma andando oltre, sempre nel DEF, e  sempre a proposito dell’inattendibilità delle stime governative, si scopre che, sul fronte della stima della  spesa per interessi, il tandem Letta-Saccomanni, compiono una vera e propria manovra di prestigio, degna di Mago Otelma.
Tanto per renderci conto di cosa stiamo parlando, vi propongo questa tabella che riepiloga la stima della  spesa per interessi dal 2014 al 2017: sulla prima riga quella effettuata dal Governo Monti, sulla seconda quella del Governo Letta con la nota di aggiornamento al DEF. 
gpg1 (520) - Copy - Copy - Copy - Copy - Copy - Copy

Come è facile intuire, già dal 2014, fino ad arrivare al 2017, il governo Letta stima un robusto e progressivo risparmio per la spesa per interessi, fino a giungere, nel 2017, appunto, a oltre 16 miliardi di euro, equivalenti ad 1 punto percentuale del Pil. E’ chiaro che queste presunte economie determinano un miglioramento dei saldi di finanza pubblica.
A questo punto occorrerebbe chiedersi perché il governo stimi una riduzione così significativa del costo per interessi, o secondo quale parametro. Prima di dare una risposta all’interrogativo, è bene precisare che, come giustamente segnala il Prof. Gustavo Piga nel suo blog, ormai da oltre  15 anni  a questa parte, o meglio fino all’ultimo DEF dello scorso maggio, le previsioni di stima della spesa per interessi venivano “formulate utilizzando i tassi impliciti nella curva dei rendimenti italiana rilevati a  metà marzo 2013….”.In buona sostanza si tratta(va) di un criterio riconosciuto dalla comunità scientifica e finanziaria, che traeva fondamento proprio dall’analisi della curva dei tassi in un determinato periodo temporale.
Con la nota di aggiornamento, il governo cambia paradigma.  Infatti, sul documento,  la stima della spesa per interessi fonda  la sua previsione su una “ipotetica e una graduale chiusura degli spread di rendimento a dieci anni dei titoli di stato italiani rispetto a quelli tedeschi a 200 punti base nel 2014, 150 nel 2015 e 100 nel 2016 e 2017”. Cioè, per dirla in parole più semplici, il costo degli interessi sarebbe destinato a scendere in ragione di una ipotetica diminuzione degli spread.
Siamo quasi al demenziale o, se preferite, al dilettantismo, poiché, un analisi di questo genere, è priva di qualsiasi fondamento, non solo scientifico, ma anche logico. Invero, va precisato che un calo dello spread non significa automaticamente una diminuzione dei costi al servizio del debito (interessi). Infatti, lo spread, altro non è che una variabile che misura la differenza tra il rendimento Btp decennale e quello del  bund tedesco: anche quest’ultimo soggetto a variare in ragione di una moltitudine di variabili economiche e di mercato.
Ne consegue, in maniera peraltro del tutto ovvia, che se diminuisce lo spread, ma al tempo stesso aumenta il rendimento del bund, l’aumento del titolo tedesco vanifica in tutto o in parte il beneficio prodotto dal ripiegamento dello spread . Da ciò se ne deduce che se ad un eventuale aumento del rendimento del Bund, non si contrappone un calo più che proporzionale dello spread, il costo del debito aumenta anziché diminuire. Questo, banalmente, per significarvi che la stima fatta dal governo per quantificare la spesa per gli interessi, oltre ad essere infondata nel metodo, lo è anche logicamente.
Detto ciò, con ogni probabilità, ciò che induce il governo a ritenere un ripiegamento dello spread nei confronti del titolo tedesco, verosimilmente, risiede proprio nelle previsioni di crescita del PIL, dal 2014 al 2017, a parer di chi scrive, fin troppo ottimiste, o meglio non realizzabili.
Il perché dovrebbe esser chiaro. Infatti tanto più la crescita si dimostrerà (almeno sulla carta) vigorosa, tanto più i conti pubblici si stabilizzeranno verso sentieri di maggiore sostenibilità (sempre sulla carta) e, di conseguenza, aumenterà anche la fiducia degli investitori nei titoli del debito pubblico, determinando anche un ripiegamento dello spread, magari allineandosi (??) alle previsioni elaborate dal governo nel DEF. Quindi, un rientro dello spread a 100 punti base, in ragione della crescita esponenziale del PIL esposta nel DEF, potrebbe essere verosimile. Ma ciò che non lo è, sono le previsioni sul PIL.

A PROPOSITO DELLE PREVISIONI FANTASIOSE SULLA CRESCITA
Ecco, il punto è proprio la crescita economica.
E’ proprio qui che il governo commette una vera e propria indecenza, proiettando stime che, non senza difficoltà e fantasia, potrebbero semmai essere ospitate nel libro dei sogni, nonostante, nel corso degli ultimi 14 anni ed oltre, il PIL dell’Italia sia cresciuto mediamente ad un livello ben inferiore (oltre 1%) rispetto alla media UE27.
gpg1 (517) - Copy - Copy - Copy - Copy - Copy - Copy
 Ad ogni buon conto, la Nota di Aggiornamento al DEF si fonda  su una dinamica di tassi di crescita del Pil dal  2014 al 2017 decisamente ottimista:
  • 2014 +1,0%;
  • 2015 +1,7%;
  • 2016 +1.8%;
  • 2017 +1.9%.
Cioè, una crescita molto più robusta di quella mediamente prodotta negli ultimi 13/15 anni, ascrivibile, secondo il DEF, all’impatto (positivo) che dovrebbe produrre le riforme varate dai governi negli ultimi anni. Che poi, quali sarebbero queste riforme, sfugge del tutto.
In pratica, una crescita ben superiore a quella prevista da altre istituzioni finanziarie internazionali (es FMI) che appaiono comunque fuori dalla portata dell’Italia, almeno nel contesto che andremo tra poco a chiarire.
E’ chiaro che gonfiare ad arte una previsione di crescita per i prossimi anni, in visione prospettica, rende il quadro di sostenibilità delle finanze pubbliche assai più roseo rispetto a quello che altrimenti sarebbe. Per il semplice fatto che, ampliare la base imponibile (maggiore PIL), ha come ovvia conseguenza anche un aumento delle entrate fiscali, determinando un miglioramento dei deficit, senza che ciò derivi da un inasprimento delle aliquote.
E questo favorirebbe anche un maggior interesse nell’acquisto del debito italiano anche da parte degli investitori, che comunque sanno (o meglio dovrebbero sapere) che si tratta di previsioni di crescita del tutto irrealizzabili. Anche perché, se fosse lo stesso governo a disegnare una quadro di sostenibilità delle finanze pubbliche a tinte fosche (cioè più verosimile alla realtà), chi mai avrebbe interesse ad investire sul debito pubblico italiano, se non con un rendimento che incorpori anche un maggior premio di rischio?
Quindi, banchieri compiacenti, ancorché conoscano (o quantomeno lo sospettino) che i dati sulla crescita siano del tutto inverosimili,  acquistano ugualmente  il debito pubblico. Perché sanno che il governo, all’occorrenza e in caso di necessità, in virtù dell’autorità che ha di imporre tasse -nelle forme più fantasiose possibili, patrimoniali comprese- sarà sempre disponibile ad intermediare ricchezza (quella degli italiani, nello specifico)e ripagare il debito nei confronti degli investitori.
Ma siccome il Governo ben conosce che i dati sono del tutto dissociati dalla realtà e che si tratta di ipotesi irrealizzabili, destinate a naufragare aprendo buchi nel bilancio dello stato, anticipa gli eventi. Quindi   vara una nuova manovra in modo che, quando ci si accorgerà del naufragio delle previsioni di crescita, tutto sarà già più o meno sotto controllo. Perché, è chiaro: le clausole di salvaguardia servono proprio a questo. Salvo ulteriori manovre e quindi altre tasse.
Ed è quello che, in buona sostanza, è stato fatto nei giorni scorsi varando la Legge di Stabilità, della quale parleremo più diffusamente in prossimo articolo.
Ma tornando al fattore crescita economica, vorrei proporvi un breve ragionamento, di buon senso, per farvi ben comprendere quanto siano infondate le previsioni di crescita formulate dal governo. Ragionamento che, per certi versi, esula dalla solita prospettiva approcciata dagli economisti su tali tipi di analisi. Nulla di complesso e particolarmente difficile.
Per comprende di cosa stiamo parlando, è bene fare un breve excursus su ciò che è stata la crescita italiana negli ultimi 13 anni, ossia dall’introduzione dell’euro. Ragioneremo in termini nominali. Cioè non considerando l’effetto inflazione che si è manifestata nel periodo considerato e che, comunque, giova ricordare, è stata di circa il 30% dal 2000 al 2013.
 gpg1 (518) - Copy - Copy - Copy - Copy - Copy - Copy
grafico 1
*banda celeste: Pil nominale secondo le previsioni del DEF
Come è facile osservare, in tutto il periodo considerato, l’Italia è cresciuta in maniera del tutto asfittica: certamente non in sintonia con le proprie necessità, e, mediamente, come evidenziato in precedenza, ben oltre un punto percentuale annuo in meno rispetto alla media dei pausi UE27. Nel frattempo, il debito italiano ha conosciuto ritmi di crescita molto più sostenuti, con una drammatica accelerazione  proprio dal 2008 in poi. Ossia con l’esplosione della crisi che ha determinato, ad esempio, un maggior esborso da parte dello Stato per sussidi di disoccupazione, o per la partecipazione ai vari piani di salvataggio condotti nel cotesto europeo.
 gpg1 (519) - Copy - Copy - Copy - Copy - Copy - Copy
Tant’è che, dal 2000 in avanti, il debito pubblico non è mai sceso sotto il 103% del Pil -quando i parametri di Maastricht lo vorrebbero confinato al 60% del prodotto lordo-  con un’accelerazione vertiginosa proprio nell’ultimo quinquennio.
Fino a giungere, alla fine del 2013, a ridosso del 134% del Pil. Circa 2090 miliardi di euro, a fronte dei un PIl appena sopra ai 1550 miliardi di euro.
Tanto per offrirvi l’idea dell’accelerazione subita dal debito pubblico,  giova ricordare che, da fine 2011 ad oggi, il debito è cresciuto di circa 170 miliardi, ossia oltre l’8% dello stock totale.
Arrivati a questo punto, è il caso di ricordare che dal 2015, l’Italia, in applicazione del Fiscal Compact, per i prossimi 20 anni, dovrà procedere ad una riduzione del debito pubblico di 1/20 all’anno in ragione del PIl, al fine di confinare il debito entro il 60% imposto da Maastricht. Per sostenere l’abbattimento del debito pubblico  in un percorso così impegnativo, la condizione necessaria è che il PIL nominale cresca di almeno il 3% per i prossimi 20 anni. In modo tale che -confida il governo- una volta stabilizzato, il debito possa rientrare in maniera quasi automatica. Questa condizione imprescindibile, benché sulle previsioni del governo sia soddisfatta, appare del tutto irrealizzabile, almeno per i prossimi anni.
Ritornando alla dinamica del  PIl dal 2000 in avanti, giova segnalare che questo  è passato dai 1191 miliardi dell’anno 2000, fino ai 1567 miliardi del 2008. Per poi flettere ai 1520 miliardi con la recessione del 2009, e riprendersi nel 2011, fino a giungere ai 1580 miliardi e per poi flettere nuovamente nel 2012 e 2013, fino ad attestarsi, secondo le stime DEF, ai 1557 miliardi del 2013.  Da ciò se ne deduce che il PIl, negli ultimi 14 anni (comprendendo anche in dato del 2013, indicato nel  DEF a 1557 miliardi) è cresciuto di appena 366 miliardi di euro nominali: ossia solo del 30.74%, appena poco sopra il livello di inflazione cumulata nello stesso periodo. Ossia, non è cresciuto in termini reali.
 Secondo le previsioni riportate nel DEF , già dal 2014, il Pil salirà a 1602 miliardi, per poi passare a 1660 nel 2014, 1718 nel 2016 e 1779 nel 2017.
Cioè ben 222 miliardi in più rispetto ai livelli di fine 2013 (quasi il 15% in più), che rappresentano circa il 60% della crescita realizzata negli ultimi 13 anni.  Tutto questo è riscontrabile dal grafico (1) sopra esposto, dove dal 2014 in poi, secondo le previsioni del DEF, si assiste ad un irripidimento della curva del PIL nominale, che incorpora tassi di crescita medi nel quadriennio di oltre il 3% annuo.
A questo banale ragionamento, si potrebbe obiettare che è sostanzialmente insensato paragonare la crescita del PIL nominale in due periodi temporali differenti, senza considerare gli effetti inflattivi acquisiti, che hanno comunque contribuito ad  una maggiore crescita dal PIL nominale. Vero: osservazione ineccepibile. Ma che non cambia di molto le previsioni troppo ottimistiche fatte dal governo, atteso che le previsioni sull’inflazione sembrano anch’esse fuori dalla realtà, stante anche la persistente debolezza dei consumi che si protrarrà anche nei prossimi anni, spingendo al ribasso anche le previsioni sull’inflazione. Di conseguenza, con un inflazione che verosimilmente sarà destinata a rimanere al disotto delle previsioni, la performance del PIL nominale appare ben al disopra di ogni ragionevole previsione.

CONDIZIONI ECONOMICHE OPPOSTE
A conferma dello scenario sopra evidenziato e di quanto siano inverosimili le previsioni di crescita del PIL elaborate dal Governo, giova ricordare che nel periodo considerato, almeno fino al 2007, si sono verificate eccellenti condizioni di crescita nelle aree economiche più importanti del mondo, che, indubbiamente, hanno trainato la crescita italiana, con un export particolarmente dinamico.
In questo periodo, al netto delle distorsioni prodotte, si è assistito anche  ad un abbondanza di credito che è stato riversato nell’economia, determinando una fase virtuosa del ciclo economico.
La facilità di accesso al credito ha consentito agli operatori economici il finanziamento delle proprie attività e dei propri bisogni: le imprese hanno potuto investire in opifici, capannoni, immobili, attrezzature, macchinari e ricerca. Mentre le famiglie ed i privati, nell’acquisto di case, automobili, o altri beni durevoli. E’ evidente che  dinamiche di questo tipo abbiano avuto un enorme impulso sullo sviluppo economico del periodo considerato, determinando fenomeni virtuosi anche nella disoccupazione, che ha conosciutolivelli minimi proprio nel 2007, al 6.1%.  
E’  fuori da ogni dubbio che queste condizioni abbiano contribuito significativamente alla crescita del PIL che, tuttavia, ricordiamo, è stata ben al disotto della media europea e delle necessità del paese.

Ad oggi sembra di vivere in un altro mondo.
 Le desertificazione economica prodotta dalla crisi e dalle politiche di austerity è sotto gli occhi di tutti, soprattutto nella monotonia delle tasche degli italiani.
La disoccupazione è doppia (oltre il 12%) rispetto ai tassi minimi del 2007, mentre quella giovanile ha superato la soglia del 40%, con punte ben superiori al 50% in alcune zone del sud. Tuttavia, il tasso di disoccupazione indicato dalle statistiche oltre il 12%, non racconta affatto l’esatta drammaticità della piaga della disoccupazione, poiché non tiene conto di chi ha smesso di cercare lavoro o di chi è sottoccupato.
 Non tiene neanche conto delle centinaia di migliaia di persone che ancora godono della cassa integrazione e che sono in forza ad aziende che non avranno mai la possibilità di riemergere da questa situazione. Se di considerassero anche queste variabili, il dato sarebbe proiettato ben oltre la soglia del 20%.
 Inoltre, rispetto al periodo  che potremmo chiamare “delle vacche grasse” (2000-2007, N.d.r.), il reddito procapite reale è precipitato ai livelli che non si vedevano da oltre un quindicennio.  La capacità dei spesa della famiglie, anche a causa dell’inasprimento fiscale di questi ultimi anni, ha subito un drammatico tracollo. Decine di migliaia di imprese hanno cessato la loro attività, hanno chiuso i battenti o si sono delocalizzate in aree geografiche ove risulti più conveniente fare impresa.
La pressione fiscale ha raggiunto livelli record, ben superiori a quelli conosciuti fino al 2007.
Ancora: le banche sono  alle prese con  sofferenze record che si attestano ad oltre quota 140 miliardi di euro. Queste, sono almeno quelle ufficiali. Poi ci sarebbero anche quelle non ancora emerse, che le banche cercano di mantenere latenti più a lungo possibile. Stando la fragilità del sistema bancario (solo per usare un eufemismo), appare del tutto improbabile che le banche possano tornare ad allargare i coroni della borsa e sostenere un ciclo economico, ancorché trainato da altre economie mondiali che comunque,pur mostrando segnali di maggior ottimismo,sono ben lontane dai fasti del periodo “delle vacche grasse”.
Nel contesto europeo, invece,  giova segnalare che molte economie sono alle prese con percorsi di rientro dai deficit che chiaramente impattano sul siclo economico di quelle nazioni e, conseguentemente, anche nella componente export del PIL italiano.
Queste sono solo alcune delle variabili economiche  fortemente deteriorate che non possono che aggravare le previsioni di crescita per il prossimo futuro, rendendo gli sforzi previsionali del governo del tutto inattendibili.
  E’ chiaro che queste variabili  -che costituiscono solo una minima parte di quelle che si potrebbero considerare ai fini della nostra analisi e che confermerebbero comunque  il nostro ragionamento-, stando la persistente fragilità, non potranno contribuire alla crescita del PIL, come invece avvenuto in passato nel periodo di crescita economica.
 Eppure, questo ragionamento,  che non ha ben poco di dottrina economica, sembra sfuggire del tutto al governo che ipotizza previsioni di crescita fuori da ogni logica di buon senso.
Di conseguenza non si comprendono le ragioni per cui il PIL, nei prossimi 4 anni, debba cresce in maniera così esponenziale come, invece, prevede il governo.
 Per dirla in maniera prosaica, potremmo chiederci: ALLA LUCE DELLA DEVASTAZIONE ECONOMICA INTERVENUTA, PERCHE MAI L’ECONOMIA ITALIANA, NEI PROSSIMI 4 ANNI, DOVREBBE CRESCERE IN MANIERA BEN PIU’ SOSTENUTA RISPETTO A QUANTO AVVENUTO NEI PRIMI 8 ANNI DEL SECOLO, IN CONDIZIONI IMPARAGONABILI RISPETTO ALLE ATTUALI?
 La risposta è semplice. Ossia non esiste nessun elemento che possa confermare i livelli di ottimismo profusi dal governo, posto il fatto che, l’Italia, in questa crisi, ha perso anche una buona parte della capacità di reazione ad agganciare cicli economici favorevoli, ancorché indotti da altre economie trainanti.
 In altre parole, a parer di chi scrive, l’Italia si trova a vivere un’epoca  di declino economico e sociale di lungo periodo, dalla quale uscirne non sarà affatto facile, se non impossibile, permanendo simili condizioni.
 In una situazione come quella descritta, con un cambio non rappresentativo dei  caratteri di debolezza strutturale dell’economia italiana, invertire la tendenza, verosimilmente, sarà del tutto improbabile.
Nella condizione attuale, l’ipotesi che appare più verosimile è quella secondo la quale l’’Italia si troverà ad alternare periodi recessivi, con periodi di bassa crescita ( stagnazione), in un percorso altamente allarmante e distruttivo che determinerà:
  • Declino inarrestabile del sistema produttivo manifatturiero italiano;
  • Aumento della disoccupazione e crescita del paese da sognare per lungo tempo;
  • Impoverimento continuo delle famiglie, della classe media e poi anche degli altri;
  • Collasso del welfare attuale perché insostenibile.

 Il presente articolo e’ stato redatto grazie alla collaborazione di vari autori e pubblicato da una serie di Top Blog Italiani che si occupano di Economia.

martedì 10 settembre 2013

“Credo che la recessione sia finita e che l’economia entrerà in ripresa, siamo a un punto di svolta del ciclo”

Saccomanni.
“Credo che la recessione sia finita e che l’economia entrerà in ripresa, siamo a un punto di svolta del ciclo”

E infatti, anche nel terzo e nel quarto trimestre del 2013 l’andamento del Pil Italiano registrerà il segno negativo. Altro che ripresa…

Ma d'altronde Saccomanni e’ solo l’ultimo dei ciarlatani al governo.
Rispolveriamo la memoria.
Ricordate la “manovra salva-Italia” ?
Descritta come uno “sforzo per la salvezza e il rilancio del Paese”, nel dicembre 2011.
il governo Monti prevedeva una caduta del Pil di un punto percentuale nel 2012 e una ripresa di mezzo punto per quest’anno, grazie all’impatto sulla crescita delle straordinarie riforme messe in atto.
Ma lo stesso governo Monti fu costretto a tornare rapidamente sulle sue previsioni solo dopo pochi mesi, nel settembre del 2012 prendendo atto che la caduta della produzione nel 2012 avrebbe largamente superato il 2% e prevedendo per il 2013 una economia sostanzialmente invariata (-0,2%).
La previsione contenuta invece nel Documento di Economia e Finanza approvato nell’aprile scorso rivede nuovamente i conti del 2013, formulando una previsione di riduzione del Pil dell’1,3%, ma promettendo per il 2014 una robusta ripresa, con un incremento del Pil di pari valore.
E proprio in questi giorni,alla luce dei dati OCSE pil 2013 -2.0 che si ripiomba nel baratro.



Venga pure avanti il prossimo ciarlatano,tanto basteranno sei mesi per smentirlo.



Emanuele

mercoledì 28 agosto 2013

“il denaro è un’illusione collettiva”

“il denaro è un’illusione collettiva”.
 Questa affermazione può avere varie chiavi di interpretazione, ma si può affermare che ciò sia vero anche in senso abbastanza stretto.
La grande maggioranza delle persone è abituata a pensare al denaro come qualcosa di diverso rispetto a ciò che esso è veramente.
La mente umana ha una certa difficoltà a gestire i concetti astratti. Lo può fare, ma richiede un certo sforzo. I processi “automatici” (li chiamiamo in questo modo improprio per semplicità) della mente tendono a fare enormi semplificazioni che vanno benissimo per il mondo fisico, ma molto meno per i concetti astratti.
La grande maggioranza delle persone tratta il denaro come qualcosa di fisico, le cui caratteristiche non cambiano nel tempo. Se hanno, diciamo, 100.000 euro in banca, sono abituati a pensare a questi 100.000 euro come ad unoggetto, non come ad una relazione. Cioè come qualcosa che ha delle proprietà intrinseche, invece di qualcosa le cui proprietà derivano dalla interazione fra le persone che decidono di utilizzarlo.
Se ci riflettiamo con attenzione, tutti noi comprendiamo facilmente che il denaro, di per sé, non ha alcun valore. Ciò nonostante, tutti noi lo trattiamo come qualcosa che ha valore in sé.
Perché questo accade?
Perché i cambiamenti nelle proprietà del denaro, derivanti dalle interazioni fra coloro che lo utilizzano, sono di due tipi:
continui, ma estremamente graduali;
repentini e di grandi dimensioni, ma molto rari.
La nostra mente è abituata a gestire cambiamenti che sono sufficientemente frequenti e consistenti, come le condizioni meteo. Se i cambiamenti sono estremamente graduali, come il fenomeno della deriva dei continenti, oppure molto rilevanti ma rari, come un terremoto, la nostra mente esercita una semplificazione necessaria e tende ad ignorare questi fenomeni.
Il denaro che noi utilizziamo tutti i giorni è soggetto sia a cambiamenti continui (inflazione regolare) sia ad eventi traumatici (grandi svalutazioni, cambi forzosi, ecc.), ma noi tendiamo ad ignorarli.
Ogni giorno pensiamo al “gruzzoletto” che abbiamo da parte –per chi ha la fortuna di averlo– e crediamo che oggi quel gruzzoletto sia uguale a ciò che era ieri e sarà uguale a quello di domani (1).
Noi pensiamo al denaro come al “nostro” denaro. Quello che “io” ho guadagnato… quello che “io” ho messo da parte… il “mio” conto in banca.
Già pensare al denaro come “nostro” è una semplificazione necessaria, ma che ci porta a commettere importanti errori di percezione. Un oggetto può essere nostro (2). Una proprietà come un terreno, una casa, una bicicletta. Il fatto che sia nostro significa che possiamo disporne come vogliamo (chiaramente, nei limiti di ciò che è consentito dalla legge).
Col denaro, invece, non possiamo fare altro che scambiarlo con altre cose le quali, quelle sì, diventeranno nostre. Ma i 100.000 euro che oggi ho sul conto, con quante e quali cose potranno essere scambiate fra un anno, cinque anni o dieci anni? Questo non dipende in nessun modo da noi. Il denaro non ha proprietà intrinseche. Se ho una bicicletta, fino a quando non si rompe, io so che potrò usarla esattamente per la funzione per la quale l’ho acquistata. Con il denaro, la sua funzione di scambio varia in continuazione per una serie di fattori che sono completamente fuori dal controllo del possessore del denaro. Se noi consideriamo il denaro per la sua capacità di essere scambiato, dire che una persona possiede questa capacità è un nonsenso poiché questa capacità muta continuamente e non dipende in nessun modo da lui.
La maggior parte delle persone si inferocisce se vede il numerino del saldo del conto corrente diminuire, magari per effetto del pagamento di un tassa, ma non comprende che il problema è fare in modo che lo stesso numero –o anche un numero inferiore– possa avere un valore superiore, cioè possa essere scambiato con oggetti o prestazioni di servizi che abbiamo più valore.
Il denaro è la rappresentazione di una relazione, non è un oggetto!
Che cos’è che fa mutare il valore del denaro? L’interazione fra i soggetti che scelgono di utilizzarlo. Cioè i comportamenti degli agenti economici. Questa interazione è influenzata pesantemente da una serie di regole di politica economica e monetaria delle quali la maggior parte di coloro che utilizzano il denaro non sa praticamente nulla.
Chi decide, ad esempio, quanto denaro debba esserci in circolazione e chi lo produce?
Molti pensano che sia la banca centrale a produrre denaro. In realtà questo è vero in piccola parte.
Molti pensano che il denaro sia una merce limitata, come potrebbe essere il petrolio, ma non è così. Il denaro non è una merce, è la rappresentazione di una relazione. Dire: “lo Stato non ha il soldi” significa che non vogliamo o non possiamo modificare determinate regole che ci siamo auto-imposti. Lo stesso problema del debito pubblico è un problema solo perché siamo ingabbiati in una concezione del denaro che è assolutamente autolesionista, almeno per il 95% della popolazione.
L’errore chiave della nostra attuale concezione del denaro, come ho scritto altre volte su questo spazio, è quello di considerarlo contemporaneamente uno mezzo di scambio ed un mezzo di accumulo. E’ evidente a chiunque che se il denaro è un buon mezzo di accumulo non sarà mai un perfetto mezzo di scambio e viceversa. Ciò che lo rende un buon mezzo di accumulo è il tasso d’interesse. Il tasso d’interesse è una delle cause principali di tutti i nostri problemi economici-finanziari. La maggioranza delle persone non si rende conto che paga interessi in continuazione, anche se non ha contratto nessun finanziamento. Se una persona ha i suddetti 100.000 euro in titoli di stato, magari è felice di ricevere tre o quattro migliaia di euro di interessi, però non si rende conto delle decina di migliaia di euro di interessi che paga ogni anno.
Circa un quinto delle entrate dello stato se ne vanno per pagare gli interessi. Quindi un quinto delle tasse che paghiamo è dovuto ad interessi. Se uno acquista un automobile, del prezzo dell’automobile, una fetta molto consistente è costituita dai costi finanziari –cioè dagli interessi– che la casa produttrice paga.
Per gli immobili (sia che siamo in affitto, sia che abbiamo acquistato la casa) circa la metà dei costi che paghiamo per avere un tetto sotto la testa è dovuta agli interessi. In breve, noi paghiamo interessi continuamente, al supermercato, al bar, in palestra, ecc., ma non ce ne rendiamo conto! La cosa più grave è che la presenza del tasso d’interesse determina una concentrazione di ricchezza monetaria nelle mani di pochissimi.
Questo non è solo un problema di giustizia è anche un problema economico-finanziario. L’eccessiva concentrazione di ricchezza finanziaria nelle mani di pochi crea costanti disequilibri sia economici che finanziari i quali sono la causa di crisi finanziarie ed economiche sempre più grandi.
La soluzione radicale al problema, quindi, sarebbe quella di separare la funzione di accumulo di ricchezza da quello di mezzo di scambio, abolendo il tasso d’interesse ed introducendo un costo legato al possesso del denaro, ovvero un tasso d’interesse negativo. Il denaro, così liberato dal tasso d’interesse, diventerebbe un perfetto mezzo di scambio e la funzione di accumulo verrebbe riservata alle merci con tutte le problematiche che è giusto debbano essere collegate alla gestione di accumuli di ricchezza.
Questo, contrariamente a quanto si è portati a pensare, aumenterebbero il potere di acquisto perché il prezzo delle merci diminuirebbe e le tasse potrebbero essere ridotte drasticamente (non solo per i risparmi dello Stato sugli interessi, ma perché le imposte sui redditi verrebbero sostituite da questa forma di tassazione monetaria che è il tasso d’interesse negativo).
Gli unici che verrebbero penalizzati da una riforma radicale come questa sono coloro che riscuotono più interessi rispetto a quelli che pagano. Sono i super-ricchi. Coloro che hanno svariati milioni di euro in banca e possono vivere di rendita.
Questa esigua minoranza non vedrebbe più aumentare automaticamente il proprio enorme patrimonio e quindi ostacolerebbe in ogni modo una riforma del genere. Se avesse una prospettiva più lungimirante, però, si renderebbe conto che una riforma del genere gli consentirebbe di godere della loro enorme ricchezza senza attraversare quelle fasi di choc finanziario che sono assolutamente inevitabili con l’attuale modello. Stiamo vivendo una fase storica nella quale le principali banche centrali del mondo stanno mettendo in atto politiche monetarie non convenzionali per tentare di uscire da una crisi del sistema finanziario senza precedenti. Gli effetti di lungo termine di queste politiche sono sostanzialmente impossibili da prevedere. Sono ancora in pochi ad avere acquisito la consapevolezza che è l’attuale modello di moneta che non è più sostenibile. (3)
Abbiamo bisogno di una diversa concezione del denaro. Se il popolo si rendesse realmente conto di cos’è il denaro, come funziona, come viene prodotto, come viene redistribuito, avremmo risolto buona parte dei problemi economici perché l’attuale modello di moneta verrebbe travolto in favore di un modello più razionale e sostenibile.
Purtroppo, abbiamo un enorme problema d’informazione. Fino ad una quindicina di anni fa, semplicemente non se ne parlava. Oggi, con Internet, se ne parla molto nei così detti siti di “contro-informazione” ma insieme a tante cose corrette si dicono un mare di panzane colossali. Questo scredita completamente l’argomento agli occhi di chi è abituato ad affrontare le cose seriamente ed il tema non viene praticamente mai sollevato nei mezzi d’informazione tradizionali perché si pensa che l’argomento sia frutto di invenzioni di qualche complottista fuori di testa.
Prima o poi (purtroppo, temo più poi che prima) il tema dovrà essere affrontato. Questo sistema monetario non è sostenibile. Potrà reggere forse ancora qualche decennio, ma una riforma radicale sarà inevitabile e per allora anche la conoscenza del problema sarà molto più diffusa di quanto lo sia oggi. Almeno lo spero.

venerdì 2 agosto 2013

L’economia reale delle Marche negli ultimi 20 anni

                           Le Marche sono probabilmente la regione più colpita dalla crisi
Il Pil pro capite delle Marche cresce del 13,8% tra il 1995 e il 2002, segue un periodo di moderata crescita fino al 2007 (+2,7%) per poi decrescere negli ultimi 4 anni (-7,6%).
Pil pro capite Marche
Posizione occupata dalle Marche nella graduatoria delle regioni italiane per valore del Pil pro capite (valori concatenati):
19951996199719981999200020012002200320042005200620072008200920102011
11°11°11°11°11°11°11°11°11°11°11°11°11°11°11°11°11°
Fonte: elaborazione Scenarieconomici.it su dati ISTAT

Il saldo commerciale (riferito ai soli interscambi con l’estero, e non verso le altre regioni italiane) risulta sempre positivo nel periodo preso in esame, anche se dal 2007 il netto calo delle esportazioni sta portando la bilancia verso il pareggio.
Bilancia commerciale Marche
Posizione occupata dalle Marche nella graduatoria delle regioni italiane per valore delle importazioni per abitante:
199519961997199819992000200120022003200420052006200720082009201020112012
13°13°12°12°12°14°13°11°12°14°12°11°10°11°11°11°11°11°

Posizione occupata dalle Marche nella graduatoria delle regioni italiane per valore delle esportazioni per abitante:
199519961997199819992000200120022003200420052006200720082009201020112012
Fonte: elaborazione Scenarieconomici.it su dati ISTAT
Esportazioni nette Marche
Posizione occupata dalle Marche nella graduatoria delle regioni italiane per valore delle esportazioni nette per abitante:
199519961997199819992000200120022003200420052006200720082009201020112012
Fonte: elaborazione Scenarieconomici.it su dati ISTAT
Specializzazione Marche
La situazione nel mercato del lavoro nelle Marche è andata migliorando fino al 2007, quando il 64,8% della popolazione in età lavorativa aveva un’occupazione e solo il 2,9% non riusciva a trovare lavoro. Da allora la crisi si è fatta sentire: la percentuale di occupati sulla popolazione lavorativa è calata del 3,4% mentre la percentuale dei disoccupati è più che raddoppiata (+124,1%).
Occupazione Marche
Posizione occupata dalle Marche nella graduatoria delle regioni italiane per percentuale di disoccupati sulla forza lavoro:
199519961997199819992000200120022003200420052006200720082009201020112012
16°17°16°17°16°15°15°14°15°12°13°13°14°14°12°17°11°12°

Posizione occupata dalle Marche nella graduatoria delle regioni italiane per percentuale di occupati sulla popolazione in età lavorativa:
199519961997199819992000200120022003200420052006200720082009201020112012
10°10°
Fonte: elaborazione Scenarieconomici.it su dati ISTAT

La crisi si sta facendo sentire anche nel turismo.
Turismo Marche
Posizione occupata dalle Marche nella graduatoria delle regioni italiane per giornate di presenza nel complesso degli esercizi ricettivi (giornate per abitante):
19951996199719981999200020012002200320042005200620072008200920102011
Fonte: elaborazione Scenarieconomici.it su dati ISTAT

Anche le Marche stanno vivendo un notevole ridimensionamento nel settore immobiliare e delle auto.
Volume compravendite Marche